domingo, 19 de julho de 2015

Don Pierino Galeone: "IL MIO PRIMO INCONTRO CON PADRE PIO"

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Nel Febbraio 1945 mi ammalai di Tubercolosi. Ero in Seminario Regionale a Molfetta. Di qui partii in fretta e di nascosto per timore di contagi. Per circa due anni mi sottoposi alla terapia del pneumotorace.Nel luglio del 1947 mia madre mi lasciò andare col pretore del luogo a San Giovanni Rotondo per chiedere a P. Pio la grazia della guarigione.Così avvenne.
Appena mi incontrai col Padre ebbi subito l’impressione di aver incontrato Gesù vivente in un uomo, più che un santo. Ero felice.
Nei momenti possibili, ero sempre puntualmente presente là dove egli passava per scendere dalla cella e risalire all’orario della S. Messa e delle Confessioni.
Non mi lasciavo sfuggire le occasioni per rimanere o in coro a pregare con lui o in giardino, prima, e in veranda, dopo, a conversare insieme con Lui, in compagnia di altri amici che da ogni parte venivano a trovarlo.
Nel 1947 dopo pochi giorni ci volevamo tanto bene. Egli, con poche parole, ma con tanti fatti mi lasciava intendere quanto amore avesse per me.
Mi sembrò di capire che già mi conoscesse e mi attendesse. Infatti, mi chiese più volte, passandomi accanto: «Come ti chiami?». Ed io subito: «Pierino». E lui: «Ma, di dove sei?». «Di Taranto» prontamente risposi. E il Padre, con voce contenta e scherzosa: «Ah! Tu sei Pierino di Taranto?… ho capito! E di che paese?». «Di San Giorgio!». «Ma di quale San Giorgio?». «San Giorgio Jonico, vicino Taranto». «Ho capito: tu sei Pierino di San Giorgio Jonico, provincia di Taranto».Guardandolo fisso, in silenzio, intesi approvare quanto diceva.Nonostante avessi difficoltà di salute, mi alzavo presto, alle 4.00 e più volte ebbi la gioia di servire la S. Messa. Rimanevo in sacrestia a pregare, finché non finiva le confessioni agli uomini e alle donne.

Gli reggevo il piattino della Comunione, sotto mezzogiorno, quando, dopo le confessioni, prima di risalire in cella, amministrava le Comunioni.Nel 1947 rimasi a San Giovanni Rotondo altri 20 giorni. Le persone, vedendomi sempre vicino a Padre Pio, mi mandavano da lui per farmi chiedere tante cose: la sorte di militari dispersi in Russia, la guarigione di figli, di sposi, di cari ammalati, la soluzione di problemi familiari: la pace, il lavoro, la nascita di figli.

Il Padre sempre mi rispondeva con dolcezza e amore.
Mi disse un giorno: «Quando hai bisogno di qualcosa, mandami l’Angelo del Signore e io ti risponderò».
Una mattina, una mamma in lacrime mi aveva avvicinato in fretta, prima della S. Messa per farmi raccomandare suo figlio. Il Padre, intanto, aveva già raggiunto l’altare ed io non riuscii a parlargli.
Commosso dalle lacrime della madre e confortato dall’invito di P. Pio, durante la S. Messa, per la prima volta, gli mandai l’Angelo Custode. Recitai l’Angelo di Dio e affidai il messaggio all’Angelo Custode.
Terminata la Messa, dopo aver baciato la mano al Padre, mi avvicinai con discrezione e gli raccomandai con affetto quello stesso ragazzo. P. Pio mi rispose: «Figlio mio, me l’hai già detto!».
Capii subito che l’Angelo Custode aveva prontamente avvertito e P. Pio opportunamente provveduto con la preghiera.
L’umiltà, la dolcezza, la sua paterna sensibilità e la sua materna tenerezza mi avevano soggiogato.
Vedevo in lui Gesù. Tutto quello che egli guardava, diceva e faceva mi pareva come fosse fatto da Gesù.
Il suo sguardo penetrante e profondo, la sua voce ferma e tonante, il suo incedere lento e austero mi teneva amorosamente ansioso e mi tratteneva il respiro.
Lo sentivo Padre e lo contemplavo Sovrano, Dominatore e Re.
Le sue stimmate erano segno ineffabile di Amore e di Dolore per Gesù e per noi. Ogni incontro era un bagno totale nella verità, un dolce naufragio nell’amore; stargli vicino era come stare accanto ad una quercia ombrosa presso un fiume, sicuri, sereni, e gioiosi.
Ero tanto preso dal suo fascino che né le sue piaghe né la mia malattia mi distoglievano affatto dal cammino di fusione dei nostri cuori.
Ricordo: ero febbricitante. Dormivo in una stanza con Pio Trombetta ed Enzo Mercurio. Non avevo ancora detto nulla al Padre del mio male e, tanto meno, dello scopo per cui ero andato da lui.
Venne a conoscenza che io ero rimasto a letto con la febbre, non avendomi visto alla sua Messa del mattino. Mi mandò a chiamare.
Io, febbricitante, andai in convento e chiesi di andare da Padre Pio. Mi dissero che anche il Padre stava male e che era a letto, nella stanza n. 5.
Qui mi recai e vidi P. Pio vestito con l’abito, disteso sul letto, nero nel volto e con gli occhi chiusi.
Al suo capezzale era seduto il nipote Mario, al quale, sommessamente, dissi: «Il Padre mi ha mandato a chiamare».
Mario non mi rispose nulla e mi fece cenno di aspettare.
Attesi alcuni minuti. Ero impressionato dalle sue condizioni penose. Ad un tratto mosse le palpebre, senza aprire gli occhi e, con voce affannosa, mi chiese: «Pierino, come stai?». Poi silenzio.
Rimasi ancora diversi minuti prima di andar via. Pensai: quanto mi ama! Pur in tanta sofferenza, pensava a me e si preoccupava di un povero figlio.
Un’altra mattina la sveglia non suonò. Mi alzai in fretta, ma l’affanno mi impediva di raggiungere in tempo la Chiesetta. Oramai non ce la facevo più.
Non so come, d’un tratto mi trovai sotto il convento, entrai in Chiesa e riuscii ad ascoltare la S. Messa del Padre.
Ancora oggi non riesco a spiegarmi il fatto.
Giunse, intanto, il giorno della partenza. Finalmente, nella sacrestia della Chiesetta, dopo le confessioni del pomeriggio, chiesi al Padre di farmi star bene perché, ogni mese, ero costretto ad allontanarmi dal Seminario per le cure che praticavo a casa.
P. Pio mi guardò, poggiò la sua mano sul mio petto e la portò pian piano su tutte le parti finché, arrivato al centro, si fermò e, con le dita strette, batté un colpo sul petto e, guardandomi con fierezza, disse: «Di tutto potrai morire, eccetto di qua».
Ma io, non contento di tanto dono, subito replicai: «Padre, voglio rimanere tutto l’anno in Seminario, voglio diventare un buon sacerdote». «E sì, mi rispose, solo un mese andrai a casa». «No! Padre, nemmeno un giorno a casa, sempre in Seminario». E lui, dolcemente: «Figlio mio, a marzo, per un mese, andranno tutti a casa».
Io parlavo col Padre nel luglio del 1947. Dal 20 marzo al 20 aprile del 1948, per le elezioni del 18 aprile di quell’anno, tutti i seminaristi d’Italia andarono a casa.
Il giorno seguente, dopo la S. Messa del Padre, mentre egli si trovava in coro a pregare, andai a salutarlo. Piangevo. «Figlio mio, non piangere, se no fai piangere anche me».
Ci abbracciammo e, col cuore in gola, me ne andai.
Fu il primo incontro. Tutto avvenne come mi aveva detto. Stetti bene in salute. Rimasi tutto l’anno in Seminario, eccetto il mese predetto.

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